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SALVATORE EMBLEMA

Nato a Terzigno (NA), Salvatore Emblema (1929-2006) frequenta il Liceo Artistico e L’Accademia di Belle Arti a Napoli. 

Nel 1948 esordisce con una serie di collages e ritratti di alta pregnanza materia realizzati con foglie disseccate e sapienti modulazioni cromatiche.

La fase successiva è caratterizzata da un intenso lavoro di ricerca sui materiali: sassi, terre, pomici, sabbie, arbusti e minerali raccolti sulle pendici del Vesuvio che forniscono consistenza, spessore e colore alla sua urgenza creativa e conoscitiva che, tra il 1956 e il 1958, lo portano a Roma, in Francia, in Inghilterra, in Spagna e a New York dove conosce l’artista americano di origini russe Mark Rothko, che influenzerà notevolmente il suo successivo percorso artistico.

Dopo due anni vissuti in America, dopo aver respirato l’aria dei principali centri dell’arte nazionale ed internazionale e dopo aver incontrato i più grandi artisti dell’epoca, come un “Ulisse dell’arte”, Salvatore Emblema ritorna alle origini nella sua Terzigno.

Lì, a contatto con la luce, la natura e le materie della propria terra, elabora le conoscenze assorbite altrove – l’Informale, l’Action Painting, l’Espressionismo Astratto – per dar vita ad un personale discorso artistico, sviluppando la sua ricerca spaziale fino al raggiungimento della trasparenza, la conquista più propria della sua arte che lo immetterà a pieno titolo tra i grandi della pittura del ‘900.

Canonizzata nel 1979 da Giulio Carlo Argan in un articolo apparso su L’Espresso, la trasparenza, ottenuta da Salvatore Emblema con una sistematica e composta sottrazione di fili dall’ordito delle tele di juta – la cosiddetta “detessitura” – lo proietterà nel cuore pulsante del dibattito sullo Spazialismo.

Lucio Fontana, fondatore del movimento, nel “Manifesto dell’Arte Spaziale” del 1951 dichiara: “Non voglio fare un quadro, voglio aprire lo spazio, creare per l’arte una nuova dimensione, collegarla al cosmo, come lo si intende, infinito, al di là della superficie piatta dell’immagine”.

Gli spazialisti, dunque, non hanno come priorità il colorare o dipingere la tela, ma mostrare come, anche in campo puramente pittorico, esista la tridimensionalità. Essi aprono sulla tela una prospettiva di attraversamento e di specchiamento esistenziale, capace di rivelare, al di là della superficie, altri mondi, altre consistenze non solo spaziali, ma anche temporali e psicologiche.

In rapporto diretto con i “tagli” di Lucio Fontana e le “combustioni” di Alberto Burri, dunque, secondo le parole di Vittorio Sgarbi, “Emblema lavora diradando la tela e rendendola suscettibile alla luce, alle infinite variazioni della realtà che dalle sue spalle si affacciano sulla bidimensionalità del piano pittorico, con l’unico filtro di una detessitura esile e geometrica che la guida nel passaggio da linguaggio quotidiano a linguaggio artistico”.

La tela diradata, trattata alla luce del sole e trapassata dai suoi raggi, non è più schermo di proiezione; il quadro diventa filtro, una trappola che trattiene, con la luce, lo spazio e il tempo.

Come per

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Rothko, esso diviene il luogo dove spazio e tempo, unificati, sono al tempo stesso interamente simbolici ed interamente visibili.

Il lavoro di detessitura, inteso appunto come una lenta destrutturazione dello schermo per recuperare la trasparenza dall’opacità, lascia intravedere ciò che si trova oltre la superficie bidimensionale che, tuttavia esistente, nel caso di Emblema non rinuncia al pigmento e al colore delle tempere vulcaniche, composte di terre e minerali naturali della zona vesuviana.

“Grumi filamentosi di segno e colore, sfumati e ancora memori dell’esempio di Rothko, si addensano al centro della composizione: forme biomorfe, segni cespugliosi e reticolari, strutture contraddistinte da una calibrata alternanza di vuoti e di pieni”. Nascono così composizioni armoniche, delicate, ma al tempo stesso energiche ed espressive, che trasmettono la sensibilità e l’amore dell’artista per i luoghi a lui più cari e familiari.